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lunedì 30 giugno 2008

Un mito che dovrebbe far pensare: Enrico Dandolo

Un mito che dovrebbe far pensare: Enrico Dandolo
di Anna Lucchiari………..da…l’Occidentale 27 giugno 2008
Nata e cresciuta a Venezia, ho vissuto con estrema gioia la mia appartenenza ad un territorio così singolare e l’orgoglio e l’amore che le porto, l’ho succhiato col latte, perché mia madre era un’altra innamorata della propria città. Ho ammirato il racconto delle sue origini, la sua nascita come civiltà diversa, capace di assimilare, come aveva fatto la civiltà romana, il meglio di quello che il mondo noto aveva sperimentato in materia di governo, economia, finanza e diplomazia. Perfino l’arte è in qualche modo rivisitata venezianamente e, la proverbiale accoglienza della città diviene insieme caratteristica e attrattiva.
Molte delle scelte della Serenissima, mi sono parse e mi paiono straordinarie, ma c’è una storia che mi viene in mente ogni volta che qualcuno parla della pensione, dell’età pensionabile, dell’allungamento della vita, delle taumaturgiche capacità che sarebbero quasi esclusivamente ascrivibili alla gioventù.
Non pretendo che il mio Enrico Dandolo divenga un mito per tutti, ma che almeno possa far riflettere qualcuno, questo mi piacerebbe molto.


L’ambiente dove nasce la civiltà veneziana, è un ambiente duro, che nessuno al mondo, se non fosse stato in fuga da pericoli ben più grandi, si sarebbe mai sognato di andare a cercare. La terra è poca e la si deve a volte letteralmente rubare alla laguna; è instabile e dopo ogni passaggio dell’alta marea, i profili, le linee e i varchi sono spesso stravolti. I profughi che vivono nell’acqua e nella nebbia, in quotidiana precarietà, vengono ovviamente influenzati da queste condizioni che trasformano in modo unico i rapporti uomo-ambiente, uomo-uomo e uomo-tempo.
L’acqua e la nebbia avevano però il vantaggio di proteggere, e gli abitanti impararono a sfruttarle e a muoversi nella laguna e nel dedalo instabile di canali e passaggi grazie all’utilizzo di barche che fin dall’inizio erano simili agli attuali sandalini. L’isolamento rendeva assai desiderabile ogni nuovo incontro: sfuggiti alle guerre e alle razzie, le persone, le famiglie che scelsero di vivere in queste zone, avevano in comune una gran voglia di pace che era desiderio, sogno, aspirazione.
Di fatto non ne avranno molta.
Poi decisero di organizzarsi, di scegliersi una guida illuminata capace di farli sentire popolo, di avvalersi di un consiglio di savi, di saggi.
E qui entra il mio mito Enrico Dandolo, ambasciatore, ammiraglio e doge. La sua carriera politica lo porta prima come ambasciatore in Sicilia, presso l’imperatore normanno Guglielmo II e, successivamente, a ricoprire la stessa carica presso l’ambasciatore bizantino Manuele Comneno.
Esperienze importanti, mondi diversi, abitudini, mentalità, costumi, cultura e storie affascinanti.
Ne farà tesoro.
Poi, il 21 giugno del 1192 (era nato nel 1107), all’età di ottantacinque anni, fu eletto Doge.
Non era solo molto vecchio, era anche cieco e pare che lo sia diventato per mano di certi Greci.
Certo è che tra questo popolo e i Veneziani, non è mai corso buon sangue. E’ anche vero che nei confronti dei rappresentanti e dei mercanti di Venezia, l’invidia era galoppante: i veneziani erano i più intraprendenti, i più numerosi fuori sede, i più ricchi e, anche, all’occorrenza, i più pericolosi.
La cecità è una menomazione molto grave, ma Enrico Dandolo la affrontò con incredibile coraggio, agendo come se possedesse una vista supplementare e, forse, ce l’aveva.
Fu lui stesso a pensare alla promisssione, come impegno che imbrigliasse le decisioni dogali, che ne limitasse i poteri.
E per evitare di cadere in tentazioni assolutistiche, chiese che gli venisse letta ogni due mesi.
Venezia non doveva correre mai il rischio di una tirannia e il Doge doveva semplicemente essere il degno e maestoso rappresentante della volontà sovrana collettivamente determinata nei supremi Consigli per il pubblico bene.
Praticamente, Enrico Dandolo trasforma il Doge in un monarca costituzionale, senza la perpetuazione dinastica.
Tra l’altro, le famiglie tra cui poteva essere scelto il Doge, erano circa duecento e, per la piccola Venezia, non erano poche.
I primi anni del suo dogado, li impegnò a cacciare i Pisani che volevano mettere un blocco a loro favore nel canale d’Otranto. In battaglia non mancava mai di incitare dalla prua della sua nave e, nei suoi confronti si creò un misto di rispetto, timore e ammirazione che contagiano qualcuno ancora oggi.
Ma il capolavoro politico, diplomatico, strategico e bellico il grande vecchio lo compie con la Quarta Crociata.
L’idea di indire un’altra Crociata era già balenata al Papa Innocenzo III. L’abate Folco l’aveva fatta penetrare nel regno dei Franchi, dove aveva trovato ascolto attento e anche qualche entusiasmo, senza che, tuttavia, si concludesse nulla.
Se ne parlava, un po’ qua, un po’ là, senza mai stabilire un obiettivo preciso, una meta, una tappa o una serie di tappe, un itinerario.
Quasi un disquisire accademico tra nobili e religiosi.
Ad un certo punto, Teobaldo di Champagne, prese in mano l’iniziativa di organizzarla, chiedendo la collaborazione ed il sostegno dei Veneziani, dato che Venezia deteneva il dominio del mare e che lui intendeva portare i Crociati in Terra Santa via mare e non via terra come accadde nella Prima Crociata. Era all’incirca la metà del 1200, quando sei delegati, capeggiati dal Principe di Villehardouin, arrivarono a Venezia per stipulare il contratto di “passaggio”.
Questo tipo di contratto non prevedeva solo un nolo per il trasporto, ma anche una compartecipazione agli utili e alle perdite.
Il contratto-convenzione fu stipulato nell’aprile 1201.
Venezia si impegnò a partecipare con 50 galee a suo totale carico e il principe di Villehardouin, nella sua esaltazione febbrile, sostenne che sarebbero riusciti a raccogliere una forza di 35.000 uomini.
Questo esercito poderoso si sarebbe dovuto riunire al Lido di Venezia nell’estate del 1202.
I veneziani, guidati nella stipula del contratto dal doge Enrico Dandolo, ritennero che l’operazione avrebbe richiesto circa 200 navi.
Poiché i Consiglieri erano perplessi per l’impegno di risorse che avrebbe richiesto, il principe di Villehardouin promise la somma strepitosa di 85.000 marchi d’argento che equivaleva a circa 20.000 Kg. di metallo prezioso, praticamente due volte le entrate normali annuali del re di Francia.
Immagino Enrico Dandolo mentre sempre pacato, assorto, tranquillizza un Consiglio decisamente preoccupato per le cifre tanto disinvoltamente e incautamente promesse dal principe francese.
Ma, Serenissimo, come potranno mai pagare una somma così elevata, in fondo, hanno dato in pegno praticamente solo la loro parola.
Non vi preoccupate. Sarà un grande affare. Questi nobili francesi non hanno mai lavorato, non si sono occupati altro che di cacce alla volpe e di tornei. Coi numeri e con gli uomini, ma anche con le battaglie vere (ma da gran diplomatico questo probabilmente si limitò a pensarlo) non hanno molta dimestichezza.
L’Arsenale lavorò con la perizia sapiente di sempre e nell’estate del 1202, le 200 navi erano pronte e splendenti. Un anno scarso per duecento navi, praticamente un miracolo!
Davanti a tanta bellezza, alla perfezione del lavoro svolto, il principe di Villehardouin cominciò ad agitarsi, chiaramente a disagio.
Dei 35.000 uomini che si dovevano riunire al Lido, ne arrivarono circa 10.000 e molti arrivarono alla spicciolata, sicchè si dovette ritardare la partenza dal giugno previsto all’ottobre. E, cosa drammatica per il Gran Consiglio, il principe aveva ammesso di non avere soldi.
La situazione era grave e molti dei suoi membri, se non lo dissero ad alta voce certo pensarono: Ve lo avevamo detto che non avrebbe pagato!
Il Doge imperterrito e senza nemmeno alzare la voce disse che un modo ci sarebbe stato. Siccome c’era a Zara una delle solite rivolte sobillate dagli ungheresi che se ne volevano impadronire per avere uno sbocco sul mare, chiese ed ottenne, (ovviamente il nobile francese in difetto, poteva solo accettare) che il Principe e i suoi con le cinquanta galee veneziane, andassero a dare una bella lezione a Zara e così, col bottino, avrebbero pagato una buona parte del debito. I crociati non erano molto d’accordo, ma nemmeno i capi potevano sottrarsi e quindi partirono.
Le galee veneziane erano capitanate dallo stesso doge. Nel mese di novembre Zara era definitivamente domata ma, essendo inverno inoltrato, i crociati decisero di svernare e di rinviare alla primavera successiva la prosecuzione del viaggio.
La seconda diversione compiuta dai crociati verso Costantinopoli, è piena di interrogativi e di misteri. Il Papa Innocenzo III parla apertamente di intrigo politico ordito a Venezia tra i Crociati e Filippo di Svevia, sacro romano imperatore germanico, per mettere sul trono di Costantinopoli un pretendente chiamato “Alessio il giovane”, suo lontano parente. Certo è che gli intrecci di parentele, interessi economici, politici e chissà cos’altro, indussero, con l’avallo dell’imperatore germanico, i Crociati a compiere una seconda diversione su Costantinopoli. Già che c’erano!
Non si sa se il doge abbia avuto una parte nell’influenzare questa decisione, lui, ovviamente, negò sempre. Le circostanze erano certamente favorevoli e il grande vecchio seppe approfittare di tutto, persino della mutevolezza dei venti locali che conosceva alla perfezione, riuscendo anche a dare ai francesi una lezione di strategia navale.
Alcuni crociati, che sentivano i veneziani spolpare le sante fila con la politica del carciofo, abbandonarono la spedizione, ma sempre molti ne rimanevano e l’impresa si presentava possibile.
Il doge uscì allo scoperto solo durante la sosta obbligata a Corfù quando comunicò agli alleati di aver avuto la terribile notizia che in Costantinopoli si era scatenata una violenza inaudita contro le colonie veneziane e non solo.
I crociati si rassegnarono: erano, chi per un motivo, chi per un altro, tutti d’accordo nel proseguire alla volta di Costantinopoli ma venne loro promesso, pur se in modo assolutamente accademico, che subito dopo risolto il problema bizantino, sarebbero stati condotti in Terra Santa.
Le navi in assetto di guerra partirono da Corfù e si inoltrarono nel Bosforo, ponendosi di fronte al Corno d’oro, pronte ad attaccare.
La flotta greca si era riparata dietro la catena di Galata e i Crociati sbarcarono a terra per attaccarne la torre, mentre la flotta veneta dava l’assalto per mare. Le piattaforme da combattimento costruite sopra gli alberi delle navi, l’abilità dei veneziani nel lanciarsi con le corde, suscitarono l’ammirazione dei francesi e c’è un cronista che ne parla con vero entusiasmo. Ma quello che impressionò tutti era il doge Enrico Dandolo dritto, tutto armato sulla prua della sua nave con davanti lo stendardo di San Marco che ordinava a gran voce ai marinai di portarlo immediatamente a terra, sicchè quelli approdarono e tutti gli altri seguirono. In breve, 25 torri furono in mano ai veneziani e il resto, compreso l’incendio appiccato a bella posta, e alimentato dal vento che spirava da nord, compirono l’opera.
Il 17 luglio, dopo tre giorni di aspri combattimenti, gli assalitori erano padroni di Galata.
Sembrava che tutto fosse sistemato ma sia il doge che i capi crociati, ritenevano, giustamente, che fosse necessario un periodo di permanenza per attendere alla riorganizzazione della vita cittadina e garantire la sicurezza del nuovo regime. Niente di nuovo sotto il sole!
Avevano quindi già deciso, comunque, di svernare in Costantinopoli ma, le cose non andarono troppo bene. Tutti si rivoltarono contro tutti e si combatteva quotidianamente nelle strade. Insomma, vuoi per l’incapacità dei greci a formare un governo saldo che sapesse rispettare gli accordi internazionali, vuoi perché la piazza era molto appetita, andò a finire che si stipulò un patto fra il Doge Enrico Dandolo, il marchese Bonifacio di Monferrato, il conte Baldovino di Fiandra, Ludovico di Blois, Ugo da San Polo per i Crociati, per portare un attacco definitivo alla città ed assoggettarla al diritto dei vincitori. Ovviamente questi si sarebbero risarciti con il bottino di guerra.
Il secondo decisivo assalto fu portato alla città nell’aprile del 1204 e, forte delle esperienze che già avevano fatto circa l’abilità marinara e tattica del Doge, ne ascoltarono i consigli e attaccarono via mare.
Il primo assalto non riuscì perché molti vascelli attaccanti non riuscivano ad avvicinarsi abbastanza alle mura per gettare le scale e salirci sopra. La corrente che proveniva dal Bosforo era tanto forte che era praticamente impossibile tener ferme le navi. Enrico Dandolo fiutava il vento e raccomandò a tutti di aspettare. Una giornata durò questa situazione ma, verso il mezzogiorno del dì seguente, il vento da nord si rinforzò notevolmente, tanto che per l’ampio beccheggio, l’albero maestro di una delle navi si spinse così avanti verso le mura, da consentire a tale Pietro Alberti, veneziano, di saltarvi sopra e di trascinare gli altri all’assalto della torre. Enrico Dandolo, come di consueto coperto delle insegne dogali incitava i suoi ritto sulla prua dell’ammiraglia e come il flautista magico spezzò ogni incertezza: il miracolo ancora una volta si compì.
Il resto è cronaca, anche se leggendo qua e là si ha l’impressione che questi resoconti non siano immuni da qualche partigianeria. In una di queste ho letto che i Veneziani:
“Salvarono dalla vandalica distruzione, onde si buttarono i crociati, una innumerevole quantità di oggetti preziosi: quadri, statue, vasi d’oro, d’argento e d’agata, oltre alle gemme che ornano la Pala d’oro a San Marco e i quattro famosi cavalli di metallo dorato che avevano ornato l’arco trionfale di Nerone e che Costantino aveva trasferito a Bisanzio quando vi pose la sede del suo impero”.
Che dire? Salvarono tutto portandoselo accuratamente a casa.
Quando Bonifacio di Monferrato ordinò che il bottino fosse adunato per la divisione, fu valutato, scrive Frederic C. Lane, in 400.000 marchi, senza contare le 10.000 armature che erano sempre di gran valore.
I veneziani si presero la somma dovuta dai francesi per le navi più gli interessi.
Scrive Roberto Cessi nella sua Storia della Repubblica di Venezia, che la figura di Enrico Dandolo “si protende nella storia circondata di un’aureola di leggenda, avvolta di un senso mistico, che si raccoglie attorno alla sua tomba profanata e negletta in un angolo remoto di terra musulmana”.
Quando morì aveva novantotto anni e combattuto e vinto fino all’ultimo giorno della sua vita.

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